Che cosa dici su Martini, Gerusalemme?

Ester Abbattista
biblista

Dieci porzioni di bellezza
sono state accordate al mondo dal Creatore,
e Gerusalemme ne ha ricevuto nove.

Dieci porzioni di scienza
sono state accordate al mondo dal Creatore,
e Gerusalemme ne ha ricevuto nove.

Dieci porzioni di sofferenza
sono state accordate al mondo dal creatore
e Gerusalemme ne ha ricevuto nove.

Sul rapporto tra il card. Carlo Maria Martini e Gerusalemme si sono scritte numerose pagine e basta fare una breve ricerca bibliografica o su internet per rendersi conto della ricchezza dei suoi interventi, dei suoi articoli o libri e delle sue risposte su questa domanda e su questo tema. Volendo aggiungere qualcos’altro, una possibilità potrebbe essere quella di presentare un ulteriore collage di questi interventi alternando la voce di Martini a quella dei suoi interlocutori, ma alla fine il risultato sarebbe una ennesima ripetizione. Che cosa manca a quanto già scritto e detto dal cardinale e sul cardinale in rapporto a questa città? Forse la voce stessa della città, che cosa dice di lui Gerusalemme, le sue mura, i suoi luoghi, la sua persona…

Mi sia allora concesso di porre questa domanda: e tu, Gerusalemme, cosa dici di Martini?

Quando Carlo Maria giunse per la prima volta sulla mia terra era un giovane gesuita fresco di studi biblici e archeologici che desiderava scrutare le mie pietre, i segni della storia tra le mie zolle. Attento ai particolari, quasi con una lente di ingrandimento in mano, si aggirava tra i miei dintorni… Fu allora, che per la prima volta lo accolsi nel mio seno, lo feci sprofondare nel mio grembo perché potesse rinascere dalle mie profondità e sentire la mia terra come la sua culla. Da allora la vita e la morte, per lui, coincisero con il mio grembo in cui desiderava essere riaccolto alla fine dei suoi giorniii . Lontano da me per tanti anni nel servizio di quella Parola che da me e in me troverà il suo compimento ultimo, lo vedevo tornare di tanto in tanto per brevi visite pellegrine, aggirandosi tra le vie, in mezzo alla folla, e fermarsi in ascolto orante o in spiegazioni illustrative su una o l’altra delle mie pietre. Pazientemente attesi il suo ritorno, quello più prolungato, più profondo, dettato solo dal desiderio di rimanere in me. Quando giunse era già emerito, come si suol dire nel suo mondo, stava entrando nell’ultima stagione della sua vita, come egli stesso amava dire, accompagnato da colei che non lo avrebbe lasciato sino alla fine: la sua malattia. Camminava sulle mie strade più lentamente, pensieroso, carico di storie, volti, immagini, gioie e dolori che lo avevano attraversato, a volte riempito, a volte svuotato. Nel suo incedere lento, spesso anche stentato, il suo sguardo si posava ancora sulle mie pietre, ma in modo diverso, meno curioso, forse, ma più penetrante. Non furono celate ai suoi occhi le mie ferite profonde, aperte e sanguinanti. Neppure le mie lacrime, il mio dolore… Decise allora di prendersi cura delle mie piaghe, ma non come un medico con una ricetta pronta e dei farmaci alla mano. No, lui ci voleva passare in mezzo a quelle ferite, ascoltarne le storie, raccoglierne le lacrime, assorbirne le grida, amando i lembi sanguinanti da una parte e dall’altra, sapendo che solo così si potranno un giorno rimarginareiii . Come sua dimora non scelse di avere una casa sua, ma un luogo dove potesse sentirsi a casa, tra fratelli o confratelli, come lui li chiamava. Ospite tra ospiti, figlio di quel Dio cui solo appartengo e per cui solo esisto, come città da lui eletta, Carlo Maria era divenuto mio cittadino per nascita di fedeiv . Alla mattina, saliva sulla terrazza della casa che lo ospitava, per contemplare le mie colline e ascoltare le loro storie. Le conosceva ormai a memoria, ma non si stancava mai di riascoltarle, fermandosi ora su questo particolare, ora su quello… mentre io lo avvolgevo con la mia luce e riempivo il suo cuore di tenera gioia. Il resto della sua giornata lo passava tra le sue carte, le parole da me uscite… Di tanto in tanto incontrava anche gruppi di pellegrini a cui tesseva le mie lodi e intonava il suo canto d’amore per mev . Nel pomeriggio, avvolto nella penombra della cappella, godeva del silenzio in quel dialogo di sguardi tra lui e il mio Signore mentre dall’esterno giungevano un po’ ovattati i rumori delle mie strade ingolfate dal traffico e assordate dai clacson. Lui, tutto quel rumore, quel via vai di persone, di fedi, di etnie e culture lo chiamava musica, diceva: a Gerusalemme, altopiano roccioso, si canta e si danza la gioia dell’esserevi . Tra le tante cose belle della sua presenza in mezzo a me, era il suo incedere nascosto, umile, non visibile a prima vista. Amava vestirsi come gli altri, andare in giro senza segni distintivi, confondersi come uno tra i tanti. Sulle mie strade lastricate di pietra la cosa più comoda per lui erano dei sandali di gomma di colore verde. Accompagnandosi con il suo bastone, come un vecchio pastore che ha lasciato il suo gregge al sicuro, andava in cerca di un po’ di riposo sotto l’ombra delle mie mura. Le mie mura, sì, imponenti e gravide di storia, di secoli e di proiettili, contese da una parte e dall’altra, erano per lui sicurezza e baluardo. Ne aveva saputo cogliere il segreto in quel mio essere compatta, diceva: “she-chuvrah lah jachdaw citando un salmo in mio onoreè compaginata insieme” e dava a quell’espressione il significato di compagnia perché nessuno poteva sentirsi troppo stretto tra le mie mura per non dar posto anche all’altro, al compagnovii . Contemplando le mie porte, attendeva nella speranza che un giorno attraverso esse sarebbe uscita la Parola del Signore e già ne pregustava il suono ponendo l’orecchio attento al riecheggiare degli shofarotviii in giorno di festa. Due luoghi egli amava di più tra le mie mura, due spazi vuoti densi di Presenza, due pietre su cui lo sguardo dei miei figli si concentra notte e giorno alla ricerca di Colui che vi abita da sempre e per sempre. L’una pietra si chiama Kothel, tra le sue fessure si scorge l’Amatoix e l’altra si chiama Sepolcro, dove si incontra il Vivente. Di buon mattino, all’alba, finché le gambe glielo permisero, si recava lì per accogliere l’annuncio di Resurrezione e celebrarne la festa. Ho gioito della sua presenza e amato il suo sguardo innamorato finché un giorno la sua compagna, la malattia, lo ha allontanato da me, ma solo per un breve tempo, una missione, l’ultima: affidare il suo spirito al Dio dell’Amorex . L’ho raggiunto nel momento della sepoltura, la mia terra riposa con il suo corpo, ed egli ora è con me, attraversata la porta è entrato nella mia realtà celeste dove canta le mie lodi al Signore SENZA FINE.

Ester Abbattista

__________________________________________

i – Testo ispirato al Midrash Esth. Rab 1:17 e citato da C.M. Martini, “Gerusalemme: storia, mistero e profezia”, Atti della XXVI settimana biblica, 1.

ii – Si tratta dell’episodio, più volte raccontato dal card. Martini, che lo vide, giovane studente, in occasione di una escursione archeologica, precipitare per qualche metro in uno dei grandi pozzi di El Gib (l’antica Gàbaon), scavati al tempo del re Salomone, pozzi profondi decine di metri.

iii – Scrive C.M. Martini: “Intercedere non vuol dire semplicemente «pregare per qualcuno», come spesso pensiamo. Etimologicamente significa «fare un passo in mezzo», fare un passo in modo da mettersi nel mezzo di una situazione. […] Intercedere è stare là, senza muoversi, senza scampo, cercando di mettere la mano sulla spalla di entrambi e accettando il rischio di questa posizione”, Verso Gerusalemme, 139.

iv – Cfr. Sal 87,5-6.

v – Scrive C.M. Martini: “«L’Eden non è a est, ma al centro, e il centro (riferendoci anche al Cantico dei Cantici e ai salmi) è la simbologia della sposa». Uno dei bollettini stampati recentemente a Gerusalemme sul tema Jeursalem and the Bible, e che sono una specie di legame tra coloro che amano Gerusalemme, è tutto dedicato al tema della Gerusalemme sposa, Gerusalemme la sposa libera, per cui ci si può anche riferire al N.T. e a Paolo”, C.M. Martini, “Gerusalemme: storia, mistero, profezia”, in Gerusalemme. Atti della XXVI Settimana Biblica in onore di Carlo Maria Martini, 9.

vi – “Parlando del mistero di Gerusalemme, [C.M.Martini] mi disse: Se è vero come dice Urs von Balthasar che la verità è sinfonica, Dio deve essere musica. I Salmi che recitiamo ci invitano tante volte a cantare, a lodare Dio. Come la musica ci introduce in un mondo diverso, cosi Gerusalemme ci apre le porte di un mondo che non abbiamo finito di scrutare. A Gerusalemme, altopiano roccioso, si canta e si danza la gioia dell’essere”: F. Manns, [http://www.frontierarieti.com/wordpress/martini-anno-grazie-il-amore-gerusalemme/].

vii – C.M. Martini, Questa nostra benedetta maledetta città. 8a Cattedra dei non credenti, 9.

viii Il suono dello shofar segna l’entrata nel sabato, il tempo della festa, il luogo dell’incontro dell’uomo con Dio.

ix – Con il termine ebraico kothel viene comunemente chiamato dagli ebrei il muro occidentale di contenimento del Tempio di Gerusalemme (più conosciuto ai non ebrei come il muro del pianto). La parola kothel si trova unicamente in Ct 2,9: “Eccolo, egli sta dietro il nostro muro; guarda dalla finestra, spia dalle inferriate”.

x – “«Sono pronto!» dice come emergendo da un silenzio di secoli. Tutti i secoli che lo separano dal primo anelito di vita sulla terra. Marco è convinto di dover servire il piatto successivo: «Desidera altro, Padre?». «Sono pronto alla morte». La lotta si trasforma in pace. Tutto è accolto.” in D. Modena, Carlo Maria Martini. Il silenzio della parola, 143.

 

Share This