Gerusalemme: Laurea al cardinale Martini
L’Università Ebraica di Gerusalemme ha conferito nel 2006 al cardinale emerito Carlo Maria Martini la Laurea honoris causa in filosofia. Il prestigioso riconoscimento è stato assegnato all’ex-arcivescovo di Milano, che ha tenuto per l’occasione una lectio sul tema “Filosofia e dialogo”, per il particolare ruolo da lui svolto per lo sviluppo del dialogo fra ebrei e cristiani. Riportiamo il commento del professor Paolo De Benedetti, docente di Giudaismo presso la Facoltà Teologica dell’Italia settentrionale.
Professore, che significato ha questo prestigioso riconoscimento?
Questo riconoscimento corona – e, stando alle sue parole, non conclude – tutto il percorso di Martini, tutta la sua tensione verso l’ebraismo. La scelta stessa di stabilirsi a Gerusalemme è come l’esigenza di una prossimità fisica con l’ebraismo e il popolo del Libro. Le lauree accademiche vengono non infrequentemente concesse a personalità di alti livelli di sapere, ma in questo caso io la vedo come uno “scambio di doni” tra due autocoscienze culturali, teologiche e religiose, entrambe – nel pensiero di Martini – parte di un unico cammino predisposto da Dio, lo ‘ultimate concern’ secondo la citazione della lectio.
Quali sono le tematiche a cui l’Università, ossia la quintessenza del mondo culturale e filosofico ebraico, ha voluto dare il riconoscimento?
Il problema essenziale come visto da Martini è l’esigenza della Chiesa di affrontare e mettersi in ascolto dell’ebraismo. La Chiesa deve riconoscere quanti elementi il cristianesimo ha attinto e deve attingere dall’ebraismo. L’autocoscienza della Chiesa non può non sopravvivere senza una profonda intimità con l’ebraismo. Il riconoscere che, come dice l’apostolo Paolo, “i doni di Dio (ossia la elezione di Israele) sono senza pentimento”. E poi, con le parole di Martini, “la posta in gioco non è semplicemente la continuazione vitale di un dialogo, bensì l’acquisizione della coscienza, nei cristiani, dei loro legami con il gregge di Abramo”. Martini riconosce la missione che Israele ha ricevuto come “regno di sacerdoti e popolo santo”: missione consistente non nel portare le genti entro l’ebraismo, ma nel portare il Dio di Israele alle genti, cosa che Israele ha fatto e fa tuttora.
Il tema della lectio è stato il dialogo…
Ogni dialogo per essere giustificato non ha lo scopo di convertire l’altro, ma di ‘come è bello stare insieme’: anzi parte proprio dall’incontro di due identità ben distinte. Non vi è niente di sentimentale, di abbracci superficiali che non fanno che appiattire le varie identità, e questo vale soprattutto per lo speciale rapporto ebrei-cristiani.
Perché parla di un rapporto speciale?
Va tenuto ben presente che nella visione di Martini (e anche mia) è fondamentale che il rapporto cristianesimo-ebraismo sia diverso da quello cristianesimo-altre religioni. Già una decina d’anni fa, durante il Sinodo diocesano di Milano, nella sezione ‘ecumenismo’, il problema dei rapporti con l’ebraismo lo trattammo separatamente da quello con le altre religioni, come un fatto a sé, per indicare il rapporto privilegiato e particolare di interdipendenza che vi è fra le due fedi. Nella persona di Martini questa tensione nei riguardi dell’ebraismo e dei suoi valori è il primo passo verso quel dialogo inteso appunto come momento comune. Ed egli è consapevole che questo dialogo è molto più importante per i cristiani che non per gli ebrei, perché l’ebreo viene prima e quindi può vivere la sua alleanza senza quello che viene dopo, mentre il cristiano viene dopo, e quindi non può prescindere da ciò che è nato prima ed è sempre vivo.