Carlo Maria Martini : la Parola e il dialogo

 

Gianfranco Bottoni
già responsabile per l’ecumenismo e il dialogo dell’Arcidiocesi di Milano

Ricca e poliedrica, affascinante e complessa è stata la personalità di Martini. Al punto che, nel momento in cui ci si accinge a scriverne, si resta come travolti e quasi paralizzati da una quantità di suggestioni e di ricordi, di idee e di interpretazioni della sua figura. Molte cose sono già state dette sulla straordinaria luminosità del suo episcopato. Ma persino gli interventi che meglio colgono nel segno risultano sempre parziali e riduttivi. Toccherà alla ricerca storica studiare a lungo e con obiettività nei prossimi decenni testi e documenti, fatti e azioni del suo ministero pastorale, della sua profonda umanità e della sua produzione scientifica e spirituale. Un lavoro che oggi non può essere improvvisato da nessuno. Nel frattempo è lo stesso Martini a suggerirci come guardare alla sua straordinaria figura.

Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino. Questo versetto del Salmo 119, che Carlo Maria Martini ha scelto per la lapide della sua sepoltura, sintetizza il senso profondo della sua spiritualità e della sua testimonianza. In quelle parole è come contenuto il suo più intimo segreto. Potremmo dire che vi si può leggere l’icona della sua esistenza. Egli, commentando la Bibbia, ricorreva spesso a immagini o intuizioni che chiamava icone: le usava per indicare, come in un flash, il messaggio dei testi che stava illustrando. Ora, al termine della vita terrena, è del suo episcopato che, con le parole del Salmo, ci ha regalato la migliore icona che potesse rappresentarlo. Essa rimane la vera chiave ermeneutica della sua singolare personalità di uomo di Dio.

È alla luce di questa icona che mi pare si debba parlare di Martini, perché il suo servizio alla chiesa èsempre scaturito dall’amore per la parola di Dio scoperta nelle Scritture. In particolare scaturiva dal suoamore per la straordinaria umanità della persona di Gesù, la parola di Dio fatta carne. Lucerna accesa sui suoi passi è stato sempre e soltanto il messaggio di Gesù letto nel solco della tradizione biblica. Maanche riletto nell’ascolto del cuore umano e delle inquietudini del mondo di oggi. E con acuta sagacia, da vero maestro, la offriva a tutti per edificare “la chiesa del concilio”. Il concilio Vaticano II, soprattutto con la Dei Verbum e la Lumen Gentium, aveva inteso mettere le Scritture nelle mani del popolo di Dio, perché se ne nutrisse per la vita delle comunità ecclesiali. A questo obiettivo ha subito mirato la sua guida di pastore.

 

I primi passi di un grande cammino

Il suo ingresso a Milano come arcivescovo, il 10 febbraio 1980, aveva già preannunciato la novità di uno stile che si può definire conciliare. Aveva voluto camminare per le vie della città tenendo in mano il Nuovo Testamento tradotto in lingua corrente. Il segno del camminare con il libro della Parola tra lagente, in mezzo alle case, come uno tra gli altri, diceva l’assoluta novità di uno stile evangelico. Allo stile profetico e itinerante di Gesù e al senso profondo di quel gesto inaugurale è rimasto fedele nei suoi ventidue anni di servizio alla chiesa milanese.

Perché proprio il testo della traduzione interconfessionale in lingua corrente? Lui, studioso a livello mondiale di filologia neotestamentaria e di critica testuale, con quella scelta esprimeva la sua attenzione ecumenica alle diverse confessioni e preannunciava il tipo di servizio che intendeva offrire con la sua predicazione e con la “scuola della Parola”. Non tanto quello del biblista dell’esegesi scientifica, quanto quello del pastore che, commentando le Scritture, spezza il pane della Parola perché sia commestibile per tutti e nutra la fede del popolo in cammino sulle vie dell’unità.

Alla solerte e attiva chiesa ambrosiana e alla metropoli più operosa e frenetica d’Italia Martini ha innanzitutto proposto di scoprire La dimensione contemplativa della vita. Così intitolata, la sua prima lettera pastorale fu una stupenda sorpresa per tutti: andava a cogliere le esigenze più profonde del vivere umano. Inoltre creava le condizioni indispensabili perché nel silenzio e nell’ascolto l’esperienza della fede si lasciasse generare dalla parola di Dio, di cui volle affermare l’assoluto primato nel testo successivo: In principio la Parola. La sua prospettiva non si fermava all’ascolto della parola di Dio, ma intendeva evidenziare la centralità dell’eucaristia, che edifica la chiesa come corpo di Cristo. Lo Spirito poi ne dilata l’azione salvifica fino ad abbracciare l’umanità intera: Attirerò tutti a me. Con questa promessa del Signore intitolò la lettera sull’eucaristia.

Con ispirazione sempre evangelica Martini pensava alla vita della chiesa. I due discepoli che avevano riconosciuto il Risorto allo spezzare del pane partono di notte per annunciare l’esperienza pasquale dell’incontro con il Signore. Così anche la trasmissione della fede richiede oggi il coraggio di una nuova Partenza da Emmaus. Ma ultimamente la testimonianza cristiana consiste soprattutto nel vivere in comunione con il Signore la sua stessa carità, che è quella del buon Samaritano, del Farsi prossimo. Queste prime cinque lettere pastorali ruotano intorno ai tre ministeri fondamentali ai quali Martini riconduce l’essere e la prassi della chiesa e dei cristiani: Parola, Eucaristia, Carità.

 

Carisma e interrogativi di un moderno padre della chiesa

Con questo ciclo di lettere e con la prima serie di incontri e visite alle comunità Martini riteneva di aver detto l’essenziale e dato quanto aveva in serbo sul piano pastorale. Temeva la ripetitività nello svolgimento del ministero di arcivescovo, che, in quanto gesuita e studioso, non avrebbe mai pensato di dover svolgere. La sua concezione del ministero episcopale era moderna, attenta alla sua funzionalità, alla reale possibilità di poter offrire un servizio utile e fecondo. Scevra da tentazioni di potere. Scevra anche da concezioni sacrali del rapporto sponsale tra vescovo e chiesa, concezioni teologicamente profonde, ma anche datate e di fatto smentite ad ogni trasferimento di sede episcopale. Infatti il rapporto sponsale dovrebbe essere indissolubile, ma sul piano esistenziale viene sciolto ogni volta che un vescovo viene trasferito da una sede diocesana ad un’altra. Perché allora non privilegiare la dimensione funzionale del ministero?

Giunto al primo settennio di episcopato, a chi sentiva più coinvolto nell’impostazione innovativa del suo ministero, confidava la sensazione di aver concluso il suo servizio alla chiesa ambrosiana. Nel settembre 1986 aveva perduto colui che era divenuto il suo grande amico, Luigi Serenthà. Una perdita gravissima per Martini, che nella geniale intelligenza e nella passione educativa di questo sacerdote ambrosiano aveva trovato uno straordinario e insostituibile collaboratore. Forse già con lui e comunque in sua memoria aveva ipotizzato una nuova fase di riflessione pastorale sull’educare, sul comunicare, sul vigilare. Ma senza di lui non sarebbe stata la stessa cosa.

Non poteva allora essere il caso di tornare agli studi biblici che aveva interrotto? Aveva da portare a termine il lavoro scientifico di ricerca filologica che aveva iniziato. Lasciarlo incompiuto sarebbe stata una perdita per la chiesa universale. Pertanto l’ipotesi di lasciare Milano per Gerusalemme gli si affaccia in modo molto forte e l’accompagna fino a tradursi, nero su bianco, quando più di una volta la esprimerà al Papa. Ma Giovanni Paolo II non ne accoglie le dimissioni: ciò permette a Milano di avere il dono di anni di straordinaria luce.

Dopo il Conclave che elesse Benedetto XVI, Martini dichiarò che il nuovo Papa avrebbe stupito. Mi fece capire che alludeva alla probabilità che, ad un certo momento del suo pontificato, Ratzinger potesse considerare l’eventualità di interromperlo. Infatti l’attuale complessità dell’esercizio del ministero petrino e l’indebolimento dovuto all’età senile potrebbero suggerire a un Papa l’opportunità, per il bene della chiesa, di dimettersi. Martini avrebbe voluto per il suo episcopato l’applicazione di questa concezione più funzionale del ministero ordinato. Ne avevano probabilmente parlato all’interno della loro annosa amicizia. Le dimissioni di Benedetto XVI non avrebbero colto di sorpresa il cardinale Martini. È noto che le relazioni di amicizia tra Ratzinger e Martini, pur alternando fasi di convergenza e divergenza nelle valutazioni sul dopo concilio, si sono sempre improntate a stima e reciproca confidenza.

Carlo Maria Martini, in particolare, rappresenta una gigantesca figura di “padre della chiesa” dei nostrigiorni. Sono convinto che egli sia stato un pastore e dottore in cui intelligenza e santità si sono compenetrate come nei grandi geni cristiani dell’epoca patristica. Ora tenere insieme intelligenza e santità non ê dono né comune né frequente. Anzi! Spesso ove c’ê l’uno, manca l’altro. Per di più, si deve dire che essere “padre della chiesa” oggi non ê la stessa cosa che nei primi secoli del cristianesimo. È carisma che, per le attuali complessità, risulta assai raro e del tutto prezioso. E, proprio per questo, esposto ai rischi di viscerali avversioni. Già il motto episcopale Pro veritate adversa diligere, che Martini si era scelto e che rimanda agli scritti pastorali di Gregorio Magno, aveva lucidamente preconizzato la testimonianza di un amore intelligente che, per la ricerca del vero, non si sottrae a difficoltà e avversità.

Lo straordinario carisma che fa di Carlo Maria Martini un “padre della chiesa” ê consistito proprio nell’aver saputo coniugare intelligenza critica e santità biblica. La sua ê stata un’intelligenza acuta e vivace, libera e profonda, capace di lasciarsi interpellare e mettere in discussione per poter condividere il cammino di chi pensa e ricerca. La sua santità nasceva dall’ascolto perseverante e obbediente della parola di Dio, dalla cui luce egli si faceva guidare nel condividere il cammino degli uomini e delle donne del nostro tempo. Una condivisione vissuta con trasparenza e immediatezza, senza difese e con ricco senso di umanità.

 

Cercare insieme: la cattedra dei non credenti

Non temeva di avventurarsi nell’oscurità di percorsi inesplorati, di inoltrarsi nelle vicende concrete e drammatiche delle esistenze personali e nelle questioni sollevate dalla cultura contemporanea. Che cosa vi cercava? Il fascino di ciò che resta da indagare. Ma, ancor più, come Gesù con la samaritana anch’egli cercava di ascoltare il cuore umano e di scoprirvi la sete di Dio. Una sete spesso inconscia, ma frutto dell’opera nascosta dello Spirito. Per questo Martini usciva dai confini convenzionali. Amava incontrare persone che si considerano non credenti o agnostiche, ma pensanti e in ricerca. Gli interessavano i cammini attraverso vie anche molto diverse da quelle della propria fede. Ne percepiva le irriducibili differenze, ma sapeva stupirsi anche di alcune impensate consonanze. Infatti lo Spirito suscita imprevedibili sintonie. Opera arrivando prima di noi, lavorando più e meglio di noi. Arriva anche là dove mai avremmo immaginato. Di questa azione dello Spirito era convinto e ne andava alla ricerca dei frutti.

La cattedra dei non credenti ê stata certamente l’intuizione più emblematica e più apprezzata di questo suo discernimento e della sua apertura al dialogo. Il dialogo che intendeva mettere a tema era innanzitutto quello interiore a ogni persona: il dialogo tra il credente e il non credente che c’ê in ciascuno di noi. Soltanto affermare che credenti e non credenti non sono due mondi distinti e contrapposti fa crollare muri di separazione. Colpiva, poi, il fatto che un vescovo cristiano di fede granitica riconoscesse il proprio non credere e lo mettesse in cattedra accanto al proprio credere. E questo doveva valere per ogni suo interlocutore, per ogni relatore invitato alla cattedra, in qualunque posizione questi si pensasse rispetto alla fede. Per Martini, questa della cattedra, ê stata un’avventura dello spirito tra le più avvincenti della sua vita. Lo confidava lui stesso.

Diffidava però dei tentativi di imitazione e metteva in guardia dalla presunzione di poterli realizzare in termini organizzativi. Per lui averli pensati e preparati era un evento spirituale di impareggiabile intensità. Era perciò consapevole che l’impegno di preghiera e di riflessione da lui profuso, la qualità dei contatti e incontri previi con gli interlocutori e i relatori, a cui egli si dedicava personalmente, non avrebbero avuto uguali. Anche sostenere la corrispondenza con quanti gli scrivevano la propria reazione alla serata della “cattedra” non era di peso lieve. Tuttavia l’esperienza gli stava così a cuore che, anni dopo la sua ultima “cattedra”, da Gerusalemme era curioso di sapere se qualcuno in diocesi avesse tentato di raccoglierne l’eredità. In una sorta di continuità forse sperava.

Il grande successo della cattedra dei non credenti e la sua accoglienza nel mondo laico come l’evento culturalmente più significativo nella Milano di quegli anni stanno a indicare quanto Martini sapesse parlare alla città. Già le sue lettere pastorali, veri testi di fede, venivano lette e gustate anche da chi non era familiare ai temi religiosi. Scritte in linguaggio curato e a tutti accessibile, prive di moralismi o di astrazioni dottrinali, non hanno nulla del gergo clericale. In ogni occasione Martini è stato un comunicatore serio e incisivo, molto attento ai destinatari del suo messaggio. E non privo di un sottile senso dell’umorismo. Ha saputo tenere un ottimo rapporto nei confronti dei mass-media, da cui era ricercato con stima e rispetto. Apprezzava la professione giornalistica. Vi si è riconosciuto, negli ultimi anni, per la sua collaborazione mensile con il Corriere della sera. Gli ha permesso, malgrado la malattia, di dialogare con molta gente attraverso le sue risposte alle molte lettere che i lettori gli inviavano. È stato il suo ultimo “cercare insieme con tutti”.

 

A Gerusalemme: il senso dell’intercessione

Carlo Maria Martini al termine del suo mandato a Milano, pochi giorni prima di lasciare l’arcivescovado, mi disse che stava completando la stesura scritta di una sua “mappa settimanale” finalizzata alla propria preghiera d intercessione. Per ogni giorno della settimana e per i vari tempi di orazione, in quella mappa aveva elencato nominativamente persone e comunità, categorie e situazioni, problemi e necessità. Evidentemente lo scopo era di ricordare tutti e di non dimenticare nessuno di coloro che si era preso a carico dinanzi a Dio.

Lasciava Milano e la diocesi, ma portava con sé volti e problemi della sua gente. Si sarebbe presto trasferito a Gerusalemme. Vi portava nel suo spirito la grande chiesa del Signore. La chiesa senza confini che aveva amato e servito, il popolo che il pensare in grande di Dio estende a tutta l’umanità. Portava con sé coloro che aveva incontrato. Con le loro ferite, che aveva curato e che erano ancora da lenire. Con i loro doni e progetti, che erano sempre da sostenere. Per ciascuna intenzione di preghiera poteva così assicurare la sua costante invocazione a Dio.

Soprattutto all’intercessione per la pace intendeva dedicarsi in Gerusalemme. In nessun altro luogo avrebbe potuto farlo con uguale intensità e pregnanza. Infatti ripeteva spesso che non potrà mai esserci pace sulla terra, finché non si sarebbero risolti i conflitti in quella città, la città santa per le tre religioni monoteiste. E la vera intercessione non si limita a preghiere innalzate nel rifugio sicuro della propria stanza. È invece connessa con il rischio di agire.

Intercedere infatti significava, per Martini, fare dei passi, entrare in situazioni complesse. Camminare per andare a porsi in mezzo, tra due soggetti in conflitto. E saper stare lì stendendo le braccia fino a tenere le proprie mani sulle spalle di entrambi gli antagonisti. E l’intercessore deve saper resistere fermo in quella scomoda posizione finché il conflitto non venga risolto. Resistere anche a costo di andarci di mezzo, di subire rifiuti e violenze, di fallire l’obiettivo e di pagare di persona. Questo, per Martini, il senso della intercessione.

A Gerusalemme la sua presenza poteva risultare problematica allo stesso Patriarcato latino e ai Francescani di Terrasanta o non gradita a certi ambienti israeliani o palestinesi. Proprio a Gerusalemme, ove le tensioni religiose sono molteplici e il nodo del conflitto israelo-palestinese appare insolubile, egli andava senza sapere che cosa lo attendeva. Lo dichiarò lui stesso ad Efeso, poche settimane prima della conclusione del suo episcopato ambrosiano. Vi sarebbe dunque andato come Paolo: mosso dallo Spirito. Sfidava il rischio di non essere capito, ma con la fermezza del proposito con cui Gesù decise di dirigersi alla città dell’offerta. Martini aveva invitato la sua stessa diocesi, riunita in sinodo dal 1993 al 1995, ad assumere come icona per il proprio cammino il firmavit faciem suam, di cui parla Luca 9,51: la ferma decisione di Gesù di “mettersi in cammino verso Gerusalemme”.

Ora, dunque, non lasciava la sua chiesa, ma la precedeva in un cammino ideale. Come il pastore che cammina davanti al gregge, egli andava a recarsi laddove sperava che tutta la chiesa un giorno sapesse arrivare: ad un nuovo modo di rapportarsi con il popolo dell’alleanza mai revocata e di contemplare la centralità di Gerusalemme nel piano salvifico di Dio. Infatti la chiesa ha da essere luogo di intercessione all’interno dell’intera umanità. Un luogo che ha da essere in ogni dove della terra, perché, cominciando da Gerusalemme, l’evangelo ê da testimoniare a tutte le nazioni. Ma che, proprio per questi suoi inizi, a Gerusalemme condurrà, secondo la parola dei profeti, tutti i popoli della terra.

Per rendere manifesta l’opera di riconciliazione del Cristo, che dei due -Israele e le genti -ha fatto una cosa sola, i cristiani devono rivedere la propria autocoscienza nei confronti del popolo ebraico. A questo proposito Martini aveva avuto parole forti e ripeteva la necessità di non limitarsi a condannare l’antisemitismo. Diceva che, molto di più, bisogna “essere per il popolo ebraico, per la sua cultura, per la sua storia, per la sua straordinaria testimonianza religiosa”. Con rav Giuseppe Laras tenne nel 1990 il primo incontro pubblico, nella storia di Milano, tra arcivescovo e rabbino capo. E nel 1993 insieme commentarono lo Shemà Israel in apertura di uno studio biblico ebraico-cristiano. Si incontrarono in sinagoga e in più occasioni. Laras ha avuto per lui grande ammirazione e fraterno affetto. Sua è la recente proposta di intitolare in Israele una foresta alla memoria del cardinale Martini.

 

Stare in mezzo alle tensioni ecclesiali

Il significato pregnante e rischioso che Martini dava all’intercessione non potrebbe essere la chiave ermeneutica anche dell’alto senso di responsabilità che egli ha esercitato rispetto alle complesse vicende della chiesa? A me pare che nella prospettiva spirituale dell’intercedere da lui vissuta rientrava anche quel mettersi in mezzo rispetto a ciò che oggi risulta più conflittuale nei cammini di fede e nella vita ecclesiale. C’ê spesso incomprensione tra chi ha il cuore ferito per le prove o le sconfitte della propria vita e chi le giudica secondo principi astratti e regole rigide. Nascono così tensioni tra attese e risposte. E si vengono a fronteggiare prospettive contrastanti, con ripercussioni all’interno della chiesa. Martini ne soffriva. Non fuggiva però questi problemi e aveva il coraggio di affrontarli. Nell’ottica dell’intercedere, appunto.

Quando me ne parlava, mi colpiva il suo essere in ascolto attento e solidale nei confronti di entrambe le parti, malgrado le loro forti divergenze. Da una parte egli era in piena comunione con la chiesa istituzionale di cui condivideva i principi dottrinali. Dall’altra era in fraterna ed evangelica prossimità verso coloro che soffrono di essere in situazioni difficili o di sentirsi rifiutati dalla religione della chiesa. Il suo stare nel mezzo non era tenere posizioni mediane tra quelle contrapposte. Era il tentativo di assumere un atteggiamento coerente con la sua metafora dell’intercessore. Il tentativo di stare in mezzo tenendo le mani sulle spalle di entrambe le parti contrapposte. Farsi carico del sentire delle persone, quando questo appare conflittuale con il pensiero della chiesa. E restare in sintonia con il sentire della chiesa che non dimentica il vangelo di Gesù Cristo. Ecco una inedita forma di intercedere.

A questo proposito ricordo alcune conversazioni successive al suo rientro in Italia per la malattia. Mi confidava che, prima di chiudere i suoi giorni sulla terra, sentiva il dovere di parlare, di toccare pubblicamente alcuni temi scottanti. Sarebbe stato come levare un grido d’intercessione. Un appello a ridurre le distanze tra chi è in cerca di misericordia e chi ha il difficile compito di amministrarla. Ma c’era chi, pur essendogli amico e riconoscendo l’autenticità dei suoi intenti, temeva che alcune sue osservazioni risultassero critiche. Sue eventuali esternazioni erano temute a Roma. Gli equilibri ecclesiastici spesso si reggono sui silenzi che evitano le questioni scomode. E la voce di chi vi fa risuonare una parola in nome del vangelo risulta destabilizzante.

Martini si sentiva pertanto in dovere di calibrare la portata dei suoi interventi. Non voleva infatti ferire nessuno e tanto meno creare contrapposizioni. La sua solidarietà con la chiesa istituzionale, di cui era esponente autorevole, era fuori discussione. Ma era pure convinto di non dover tacere. Sarebbe stato tradire il vangelo. Doveva dunque dare voce a chi non può averla e ne patisce le conseguenze. A volte, sapendo che le strutture ecclesiastiche non erano ancora pronte a recepire le istanze che egli avrebbe espresso, ricorreva alla metafora del sogno. Il sogno di una futura chiesa. Il sogno di una chiesa fatta di comunità alternative rispetto alle logiche del mondo o della religione del senso comune. Il sogno di un nuovo concilio per discutere alcune questioni rimaste escluse dall’agenda del Vaticano II oppure emerse più recentemente.

 

Con lo sguardo in avanti

Ma perché parlare, se sapeva che per ora non sarebbe stato ascoltato? Donde scaturiva questa sua esigenza di parresia, anche se temperata da un alto senso di responsabilità e di carità? La motivazione che lo muoveva non era ideologica, come qualcuno stoltamente ha pensato. Egli non cercava protagonismi, né leadership su posizioni di avanguardia. La sua esigenza di dire cose scomode nasceva invece da una intuizione molto acuta e per nulla ovvia. Mosso dal suo eccezionale senso della chiesa gli interessava soltanto un obiettivo: creare nella tradizione cristiana un precedente da consegnare al futuro della chiesa. Quale precedente? Quello di un cardinale, arcivescovo di una grande sede episcopale, che non ha taciuto temi scomodi, che ha rotto i silenzi della chiesa del suo tempo, che ha indicato la necessità di affrontare questioni urgenti.

Ciò che oggi a taluni appare tema prematuro domani sarà argomento di inevitabile discussione. Ed è davvero di altissimo profilo la motivazione con cui Martini si determinava a parlare: seminare nella storia della tradizione cristiana affermazioni e istanze, che avrebbero potuto essere successivamente riprese come qualificati precedenti per future e ineludibili decisioni di aggiornamento nel cammino della chiesa. Vi aggiungeva la sua fiducia nell’opera futura dello Spirito all’interno della chiesa. Ora non si tratta né di anestetizzare la portata dei suoi interventi, né di leggerli come uscite di rottura. La preoccupazione per l’unità ecclesiale ha sempre prevalso in lui. Per questo ha potuto avere la forza di dire, anche se non proprio tutto, almeno una buona parte di ciò che pensava nei confronti dei ritardi della chiesa.

Anche pochi giorni prima di morire ha parlato, come è noto, di un ritardo plurisecolare della chiesa. È il ritardo del mancato confronto con la modernità e, di conseguenza, del mancato rinnovamento che ne deriverebbe. La chiesa che condanna e non si confronta con gli uomini e le donne del suo tempo è vittima delle sue paure. La paura paralizza le istanze di rinnovamento. Ma perché -si chiede Martini la chiesa ha paura? Certo, non è mai facile vincere le paure. Non dimentichiamo però che rimanerne condizionati è indice delle nostre carenze di fede. Ma che cosa altri temevano dalle sue eventuali esternazioni? Che cosa precipuamente Martini pensava nel lamentare ritardi e paure? Che cosa stava più a cuore a Carlo Maria Martini sul futuro ecclesiale?

Certamente egli amava la chiesa del concilio. Desiderava una chiesa radicata sulla parola di Dio e centrata sulla comunione dello Spirito, una chiesa in dialogo all’interno del cammino dell’umanità di oggi e capace di autentica testimonianza. Nel perseguire qualsiasi obiettivo riguardante vita e prassi ecclesiali, ciò che maggiormente lo interessava era il metodo con cui interrogarsi alla ricerca di soluzioni positive e coerenti con il vangelo.

È indubbio che in più contesti Martini abbia portato l’attenzione su questioni delicate e controverse sia di attualità ecclesiale, sia di ordine etico e pastorale. Non ha però mai sentenziato su come si dovessero risolvere i problemi. La pretesa di avere e imporre risposte non ê mai delle persone intelligenti. L’uomo di chiesa con l’intelligenza di Martini non esibisce proprie convinzioni personali. Anzi spesso ritiene di non averne, se non quelle che saranno frutto di consenso ecclesiale.

Il suo stare nel mezzo delle tensioni ecclesiali, il suo “grido d’intercessione”, non consisteva nell’indicare soluzioni, moderate o riformiste che fossero. Ma nel richiamare la necessità che le questioni venissero affrontate in modo sinodale e responsabile. Sempre alla ricerca di risposte capaci di sciogliere contrasti e oltrepassare tensioni. Tensioni tra esigenze e verità contrapposte e apparentemente non componibili. O meglio: componibili solo grazie allo Spirito che opera nella chiesa radunata in comunione di ascolto nei confronti della parola di Dio.

 

Sinodalità e dialogo ecumenico

Martini desiderava dunque una chiesa cattolica più sinodale e più ecumenica. Infatti nella chiesa delineata dal concilio ci si mette in ascolto dello Spirito che parla alle chiese e, di conseguenza, in ascolto del sensus fidei che lo Spirito suscita nel popolo di Dio. È in questa ottica che sentiva l’esigenza di nuove convocazioni conciliari, limitate però a poche ma essenziali questioni. Riteneva infatti che l’attuale configurazione del sinodo dei vescovi fosse insufficiente per esprimere la collegialità episcopale e per offrire al Papa, sulle questioni più controverse, una reale collaborazione nel difficile e complesso governo della chiesa.

La dimensione sinodale della vita ecclesiale, oltre ad implicare l’ascolto, promuove il dialogo. Dialogo non solo interno ad ogni comunità ecclesiale, ma anche tra le chiese e con le persone di buona volontà, a qualsiasi fede o visione del mondo si ispirino. Nel parlare di dialogo Martini insisteva sempre sulla realtà delle relazioni. I dialoghi, che chiamiamo ecumenici e interreligiosi, avvengono di fatto tra persone concrete e non tra sistemi astrattamente considerati. Di questa forma di dialogo con le persone è stato un protagonista nella città e nella chiesa locale. Ma non meno con esponenti della cultura a livello mondiale. Per moltissime di queste personalità, di qualunque credo fossero, venire a Milano o in Italia significava anche chiedere un incontro personale con l’arcivescovo Martini. L’elenco di questi incontri sarebbe interminabile.

Mi limito a ricordare la venuta a Milano di Elie Wiesel per una manifestazione culturale con premi Nobel: mi si era rivolto per avere udienza da Martini. Lo accompagnai dal centro congressi all’appuntamento in piazza Fontana. Era emozionato e quasi correva per scaricare la tensione. Mi disse che aveva in cuore interrogativi sul perché della Shoà che da anni lo angosciavano. Proprio a Martini voleva sottoporli perché solo da lui si attendeva una risposta. In realtà su questioni di tale peso Martini non presumeva mai di avere risposte. Cercava invece di ascoltare e condividere le inquietudini che forse devono restare aperte. Un atteggiamento questo tenuto con molti interlocutori, con i quali spesso era proprio lui ad allargare l’orizzonte dei problemi aperti. Così mi pare sia avvenuto anche con Wiesel.

La proiezione europea della sua apertura al dialogo ecumenico si era manifestata già negli anni dal1986 al 1993, in cui è stato presidente del Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee (CCEE), organismo che egli ha guidato a collaborare in modo molto intenso e proficuo con la Conferenza delle Chiese Europee, la KEK, che comprende tutte le chiese ortodosse ed evangeliche del nostro continente. Dei vari eventi interconfessionali celebrati in quegli anni basta ricordare quello storico della prima Assemblea Ecumenica Europea “Pace nella giustizia”, che si tenne nel maggio 1989 a Basilea sotto la copresidenza di Martini e di Aleksej II, allora metropolita di Leningrado e Novgorod e divenuto poi patriarca di Mosca e di tutte le Russie. Ricordo che Martini, al ritorno da Basilea, mi parlò di quell’evento come di una nuova pentecoste. Aveva percepito il dono dello Spirito che improvviso si era sprigionato a portare a conclusione unitaria posizioni divergenti che, fino a poche ore prima, apparivano per nulla componibili.

In casa cattolica Martini era stato lasciato solo nella preparazione di Basilea. L’evento ebbe molta rilevanza in Europa e un quasi totale silenzio stampa in Italia. Perché? Probabilmente sinodalità e dialogo, che l’iniziativa europea di Martini coltivava, preoccupavano Roma. Non era forse gradita la prospettiva di quel camminare insieme dei cristiani in un dialogo tra loro e con le realtà storiche impegnate ad affrontare questioni cruciali per l’umanità di oggi: la giustizia, la pace, la salvaguardia del creato. Quella prospettiva avrebbe potuto mettere in ombra il ruolo centrale di protagonista del dialogo e di rappresentante dell’intera cristianità che il pontificato di Giovanni Paolo II ha inteso esercitare. In ambito ecumenico, poi, Roma preferisce sempre i dialoghi bilaterali. Resta assai meno coinvolgibile in iniziative multilaterali promosse da terzi. Chi non gradiva l’indubbio successo di Basilea doveva trovare il modo di sostituire Martini nel suo ruolo di presidente dei vescovi d’Europa. L’obiettivo fu raggiunto mutando lo statuto in modo che del CCEE divenissero membri solo i presidenti delle conferenze episcopali nazionali. Martini, che non era presidente della CEI ma eletto a rappresentarla nel CCEE, non ne avrebbe fatto più parte. Così nel 1993 finisce il suo servizio di presidenza europea.

Alla successiva assemblea europea, quella del 1997 a Graz, intervenne in apertura a portare l’eco dello spirito di Basilea affinché la riconciliazione, accolta come dono di Dio e cercata come sorgente di vita nuova, potesse vincere la delusione nata dalle difficoltà e divisioni esplose in Europa negli anni novanta. Venne anche ad ascoltare il forum che mi era stato chiesto di promuovere sul dialogo cristiano-ebraico. Gli interessava l’impostazione che si era scelto scelto di dare all’incontro: un dialogo non tanto tra ebrei e cristiani, bensì tra rappresentanti di confessioni cristiane diverse che si interrogassero sulla propria relazione nei confronti dell’ebraismo. Questo dialogo sarebbe stato ascoltato e alla fine commentato da un’autorevole voce ebraica: quella del presidente dell’assemblea dei rabbini d’Europa, René Sirat. Questa impostazione era coerente con l’esperienza milanese del gruppo interconfessionale teshuvà. Nel forum di Graz ha prodotto risultati positivi, grazie anche al contributo di Bruno Forte che questi aveva preparato insieme a Martini. Sirat auspicò che anche da parte ebraica ci sia un’analoga “teshuvà” nei confronti del cristianesimo: dall’asimmetria alla reciprocità.

Dal 1993 al 1995 Martini promuove il 47° sinodo della chiesa ambrosiana. Viene così ad estendersi in diocesi la positiva esperienza di sinodalità che come vescovo ha sempre promosso con grande attenzione nei vari consigli diocesani. Ai lavori del sinodo diocesano è stato sempre presente e sempre in ascolto. Senza mai interferire. Valorizzava gli apporti spesso significativi da parte dell’assemblea. Ma lo faceva anche quando forse si sarebbe atteso qualcosa di più. Alla conclusiva promulgazione del libro sinodale ha offerto una sua chiave di lettura dei lavori sinodali. La sua “Lettera di presentazione alla diocesi” ê un vero e proprio capolavoro di sapienza spirituale e pastorale, tutto incentrato sul senso della chiesa degli apostoli.

Frutto del sinodo diocesano e del dialogo ecumenico a livello locale nasce nel gennaio 1998 il Consiglio delle Chiese Cristiane di Milano. Martini lo inaugura alla luce della parola di Romani 8,26: Lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza. È prudente nel formalizzare l’adesione della nostra diocesi: la concede ad experimentum dapprima per un triennio, poi per un quinquennio. Condivide la preoccupazione di evitare enfatizzazioni di questa piccola, ma importante esperienza di sinodalità ecumenica per non esporla a rischi e malintesi. Suggerisce persino di tenere un profilo modesto. Infatti se si resta consapevoli del nostro essere piccoli e deboli, lo Spirito soffia come vento in poppa. Finora è stato proprio così.

Quando, in vista del suo congedo da Milano, lo incontrammo il 9 luglio 2002 come Consiglio delle Chiese Cristiane per salutarlo e ringraziarlo della sua grande opera in campo ecumenico, ci rispose che non aveva fatto nulla di particolare o di specifico per l’ecumenismo. Riteneva che il suo ecumenismo fosse consistito solo nell’essere fedele allo spezzare il pane della Parola, luce sul cammino di tutti, e nel favorire rapporti di carità fraterna. Volesse il cielo che ogni vescovo facesse sempre e ovunque così come lui! Ci spronava a proseguire con ottimismo il cammino felicemente intrapreso, a cui guardava con grande favore. E si diceva certo che il suo successore l’avrebbe condiviso e felicemente sostenuto. Due giorni dopo fu comunicata la nomina del cardinale Dionigi Tettamanzi.

 

Nell’ora dell’ultimo congedo

Il 31 agosto 2012 si conclude il percorso terreno della vita di Carlo Maria Martini. Il suo ultimo congedo avviene nell’arco dell’ora nona di un venerdì. Come per Gesù sulla croce. Avviene mentre su Milano appare un significativo arcobaleno a congiungere cielo e terra: il segno che la Bibbia indica come simbolo universale dell’alleanza di Dio con l’umanità. Coincidenze soltanto casuali? Forse non casuale il fatto che davanti alla casa di Gallarate, ove un cardinale stava morendo, si fossero recati in incognito a pregare per lui i Salmi un rabbino, nel cuore della notte precedente, e, proprio alla sua ultima ora, un ebreo osservante: avevano saputo dell’aggravarsi della malattia. Gesti che quanto più sono stati voluti silenziosi e anonimi tanto più diventano eloquenti.

Ha così inizio la nuova fase della vita di un giusto. E immediatamente si svela la fecondità di ciò che è stato il vescovo Carlo Maria. La processione di persone alle sue spoglie esposte in Duomo e l’eco internazionale del ricordo commosso della sua testimonianza ne sono i primi segni. Unanime e popolare l’enorme risposta di uomini e donne, giovani e anziani, praticanti e diversamente credenti, religiosi e laici. Una risposta senza precedenti. Esprimeva sia la convinzione di aver perduto una irripetibile figura di fratello in umanità e di maestro nella fede, sia la percezione di poter dire che quella morte era un promettente evento di vita. Di una inarrestabile vita dello Spirito. Inconsistenti e risibili le voci discordanti. Da leggere comunque a conferma dell’autenticità evangelica della vita di Martini.

La sua sepoltura presso il Crocifisso di San Carlo nel Duomo di Milano è attorniata da una folta e permanente quantità di candele accese dai fedeli, quasi a dire che la Parola spezzata dal vescovo Carlo Maria continua a fare luce sul cammino degli uomini e delle donne di oggi. Martini aveva sperato di morire e di essere sepolto nella terra santa a conclusione del suo soggiorno a Gerusalemme. Costretto dalla malattia a rientrare in Italia aveva dovuto rinunciare a questo desiderio. Con squisita delicatezza Rav Giuseppe Laras ha provveduto a procurare terra di Israele da inserire nella sepoltura di Martini in Duomo. Un gesto simbolico bellissimo, soprattutto perché pensato e donato da parte ebraica.

Grazie all’amore di Martini per il popolo dell’alleanza mai revocata e all’affetto verso di lui da parte di molti ebrei, nella cattedrale di Milano è dunque deposta terra proveniente da Gerusalemme. Il fatto non ha precedenti in altri luoghi di culto cristiano ed è di grande significato. Non è riducibile ad affettuosa memoria del suo desiderio di morire in quella terra. Il suo senso va al di là di un bel gesto di pietas nei confronti di persona amica. La cattedrale è al cuore della vita di una chiesa cristiana. In essa la presenza di quella terra – terra donata da ebrei, non portata da devoti pellegrinaggi di gentili – non era pensabile se non per la figura di Martini. Ma diviene un segno che va ben oltre la sua sepoltura.

Ci si dovrebbe dunque interrogare sul senso di questo piccolo ma prezioso segno nel cuore della chiesa di Milano. Barth aveva detto: non ci sarà unità dei cristiani, finché non muteranno le nostre relazioni con il popolo ebraico. Martini ripeteva: non ci sarà pace nel mondo, finché non ci sarà pace a Gerusalemme. Ora il segno di quella sepoltura in Duomo dovrebbe poter suggerire alla chiesa di Dio che è in Milano la presa a carico di un rapporto con il popolo di Israele e la sua terra. Come a dire: la nostra chiesa non sarà fedele alla parola di Dio senza la riscoperta del proprio legame con la tradizione ebraica vivente. Non solo, ma c’ê persino da aggiungere che tutti i cristiani non annunceranno in piena verità l’evangelo del regno di Dio finché non sapranno ritornare all’ebraicità della fede di Gesù. E ciò implica un profondo cambio di mentalità. Nell’ottica dell’unità dei due testamenti la stessa lettura delle Scritture non sarà più antigiudaica o sostituzionista. E potrà essere evidenziata e non equivocata la stessa novità evangelica.

Proprio in questo segno potrebbe consistere il cuore di ciò che Carlo Maria Martini ci lascia: la riscoperta della fede di Gesù, la fede di un ebreo marginale in cui però lo Spirito di Dio ha operato in singolare pienezza e in modo unico e irrepetibile. Una fede, quella di Gesù, ricchissima di umanità e vissuta nel cammino del suo popolo, in un cammino vivace e attraversato da feconde tensioni. Una fede ultimamente tutta permeata dall’amore misericordioso di Dio. Una fede veramente libera e adulta. Fatta non di dottrine astratte, ma di uno stile di vita radicalmente nuovo. Una vita del tutto normale, una tra le altre per anni e anni. Ma alla fine si rende ministero itinerante di radicale accoglienza e si rivela annuncio della misericordia di Dio e della comunione nello Spirito. Qui va ricercata la novità del vangelo, la sua eccedenza rispetto ai parametri religiosi.

Forse è proprio questa luce della fede di Gesù, figlio del suo popolo e Parola di Dio fatta carne, la lucerna che Carlo Maria ci ha acceso. Perché illumini il futuro cammino di chi cerca e ascolta.

Gianfranco Bottoni

 Testo pubblicato su SeFeR 2013

 

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